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Incongruenze

Uno si prepara alla solito noiosa giornata in ufficio.

Poi iniziano ad arrivare i colleghi. Si parla di Sanremo, dello strepitoso Benigni e in quel momento arriva la frociarola doc. Quella che c’ha gli amici, va al Borgo etc etc.

E come ti esordisce?

Che a lei, la canzone di Povia, è piaciuta molto. Ma tanto tanto. E anche il testo, insomma, c’ha raggggione, perché è vero. Che non tutti i froci lo sono geniticamente, ma molti sono solo psicologici. E l’arcigay poteva anche evitare di montare tutto questo caso…

No comment.

Felicità è tristezza

Oggi, all’improvviso, ho risposto male ad una battuta di un collega.

E poi mi sono intristito.

E i pensieri in questa affollata testolina hanno iniziato a girare vorticosamente.

Tristezza e amarezza e delusione.

Perchè la “via di fuga”, comoda e (relativamente) a portata di mano che avevo sta svanendo ogni giorno di più. Me la sono lasciata scappare via, da sotto il naso.

Sì.

Aveva alcuni punti enigmatici: il condividere l’appartamento con una collega e l’elevato costo [ma allineato, se non addirittura conveniente, a quello che offre Milano alle stesse condizione], con quindi il dubbio della sostenibilità del progetto a livello puramente economico, senza far affidamento alcuni su altre persone.

Era comodo. Perchè mi era piovuto addosso, perchè mi sarebbe venuto comodo con l’università, con l’ufficio e zona non era male, tra supermercati, parcheggi disponibili e mezzi pubblici.

Però ho temporeggiato. Sperando prima di poter ottenere un’aiuto a livello economico e, successivamente, di riuscire a trovare un’altra sistemazione ad un costo minore. Ho temporeggiato, insicuro della mia capacità di riuscire ad affrontare – praticamente da solo – un passo così grande. Perchè, sebbene sappia passare lo Swiffer e lavare i piatti, non so fare una lavatrice, stendere, stirare, fare la spesa, farmi da mangiare. Insomma, non so sopravvire.

Ma nonostante tutti i dubbi, nella mia indecisione totale, mi cullavo al sogno di una cameretta tutta mia, da arredare e tenere in ordine, via dal paesello, nella grande città. Mi cullavo all’idea di diventare grande e autonomo. E speravo che non trovasse nessuno interessato all’appartamento. Cosicchè il posto fosse stato vuoto. Oppure mio.

Ma Baby, è Milano.

La vita è frenetica. E gli indecisi non hanno vita facile. E le indecisioni costano caro.

E ora, sono rimpiombato di nuovo da capo.

Bloccato tra queste quattro mura sempre troppo strette, senza neanche un sogno a cui aggrapparmi, solo con la certezza di vagare per annunci e annunci e non trovare nulla di altrettanto soddisfacente.

In fondo sono triste. Perchè lei è felice. Felice di aver trovato casa e una coinquilina.

Il giorno (del test)

Alla fine, ieri, l’ho fatto.

Prima lo stress di arrivare fin lì in macchina e cercare parcheggio (maledetti camioncini rossi della Bartolini!).

Poi l’impatto, una volta entrato nel campus, con tutta quella massa eterogenea di giovani aspiranti universitari. Forse, se fossi stato da solo, me ne sarei tornato indietro. Troppe persone, troppo vociare, troppa confusione. I miei soliti brutti pensieri iniziavano già a girare. Li guardavo e vedevo che ognuno, a suo modo, era particolare o estroso, nel modo di vestirsi, di parlare. E io? Io non ero niente di che. Uno tra tanti, che forse non spiccava tra tanti o forse neanche si distingueva.

Ma fortunatamente non ero solo. E velocemente sono stato accompagnato all’aula del test (se fossi stato solo, nonostante la cartina, mi sarei sicuramente perso). Poi l’appello, interminabile e le procedure per entrare in aula.

E nel frettempo, iniziare a chiaccherare con i vicini di banco. La ragazza romana che aveva iniziato giurisprudenza alla Sapienza e si era trasferita a Milano col ragazzo, il ragazzo che tenta da anni il test d’ingresso, chi ha già finito il suo corso di studi ma tenta per una seconda laurea. Insomma, alla fine, tra di noi, non c’era praticamente nessuno 18/19enne appena uscito dalle superiori. Eravamo l’aula dei tardoni, forse?

Poi il test. Alla fine fattibile, a parte un paio di domande stupide a cui potevo dare risposta per la risposta che supponevo era proprio quella giusta. Peccato che mi sembrassero troppo facili, troppo ovvie, troppo banali per essere corrette. E a parte quei 2 brani della comprensione del testo che erano abbastanza complicati. E con l’ansia di doverli leggere, del tempo che scorreva, del resto del test da fare non era così facile concentrarsi e comprenderli facilmente.

Poi il test (cavolata) di inglese e poi (visto che erano ormai le due e mezza) la ricerca di qualcosa da mangiare: un morbidone. Sì, decisamente troppo chimico per essere vero. Eppure esiste.

E, infine, la corsa in ufficio, per evitare di arrivare in ritardo. E sono arrivato in orario, ma stavo malissimo, tra una sensazione tremenda di sete e una certa difficoltà a respirare.

Poi, per tutto il pomeriggio, non è che sia stato così bene, però son sopravvissuto. Mentre la adorata collega, nel momento esatto che i capi avevano lasciato l’ufficio, ha comunicato che stava male e sarebbe andata a casa. Così da solo, a finire il valoro. Sì’, ok, mi hanno concesso l’aiuto di uno stagista, però se n’è andato alla fine del suo orario di lavoro. E io sono rimasto in ufficio, fino a mezzanotte, completamente solo.

E, per quanto quell’ufficio sia praticamente blindato (uscita di emergenza inclusa – nel senso che non neanche uscire), fa una certa impressione essere lì, da solo.

Fa una certa impressione spegnere i computer, il climatizzatore e le luci da solo.

E fa rabbia, una volta che la porta è irrimediabilmente chiusa dietro di te, ricordarsi di aver dimenticato dentro lo zaino con il mio adorato portatile. E che oggi, in teoria, avrei dovuto lavorarci e consegnare un lavoro…

Tempo

Questa giornata non passa più. Nel gruppo di lavoro si respira una brutta aria. Anzi, ci sono un bel po’ di cose che non piaciono. E così, pur se mi stavo divertendo ad impostare lo speciale (finalmente qualcosa di anche solo lontamente creativo!), in realtà, oggi, mi sembra che il tempo non passi più. E non vedo l’ora di salire in macchina e viaggiare verso casa. Magari è solo colpa dell’estate che sta arrivando e della stanchezza accumulata. Però, al momento, non ce la faccio più. E meno male che sono sull’altro tavolo, per i fatti miei, dando le spalle al mondo.