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A Natale sono (quasi) tutti più buoni

E sono qui, ancora sveglio.

Sto finendo di ripassare un libro ai limiti dell’assurdo, con errori di grammatica, sintassi, virgole messe a casaccio che separano il soggetto dal verbo, verbi non concordati con i soggetti, errori di battitura, uso creativo di parentesi e trattini. E sbagliano persino i nomi propri di prodotti e servizi: i-phone, FaceBook, Blog Spot.

La cosa peggiore sono però i contenuti.

Pagine e pagine di fuffa inutile, che ovviamente non mi vuole entrare in testa.

Poi, dopo l’esame di domani, bisogna pensare alla revisione di martedì, comprare gli ultimi regali, trovare il tempo di andare a tagliarsi i capelli e rendersi presentabile entro martedì sera, per la Cena di Natale organizzata dai Danimarchesi™ di ritorno in patria dopo 6 mesi di freddo e di Erasmus.

Nel frattempo mi sono comprato il mio regalo di Natale. E sto tenendo d’occhio altre offerte per farmi altri 2 possibili regali, anche se uno necessita dell’itervento dell’Architetto per poter essere effettuato.

Per il resto fa freddo, c’è la neve, il Comune si è dimenticata della mia via, tanto che è diventata un’unica pista di pattinaggio su ghiaccio. Vedrò domani mattina quando dovrò uscire. Già temo, visto che si aggiungono altre difficoltà al dover affrontare mamme e papà con SUV ed altri macchinoni che devono portare i pargoli a scuola. E non si rendono conto che se parcheggiano davanti ad un cancello automatico che si sta aprendo, forse dovrebbero spostarsi, non arrabbiarsi se suono quando rimangono fermi fregandosi del fatto che devo uscire.

Per il resto fa freddo ed ovunque imperversano le decorazioni led da esterno Iper. E non mi piacciono, perché emettono una tonalità di bianco così freddo che mi rendono triste. E invece no. Non deve essere così. Perché a me il Natale non piace. Per tutta una serie di motivi, per come l’ho sempre vissuto (male) negli anni passati, ormai il Natale non mi piace proprio. Però, in mezzo a questi sentimenti di ilnatalenonmipiace, trovo rasserenante tutte le lucine appese a alberi e balconi, colorate, luminose e lampeggianti. Mi trasmettono un certo senso di tranquillità, calore e felicità. E invece no. Quest’anno tutti hanno queste lucine a LED, rispettose dell’ambiente ma irrispettose di me stesso. E quando le guardo mi sento anche io freddo e triste.

Poi, ironia della sorte, mio padre oggi è tornato a casa con proprio quel set di 100 lucine led da esterno. 9,90€, all’Iper. E questo è il primo anno che mettiamo le decorazioni agli alberi in giardino, queste decorazioni fredde e tristi. È il primo anno dopo aver passato tutta l’infanzia, quando ancora credevo nella magia del Natale, a volere delle luci da esterno sul pino, quello alto altissimo che superava persino il tetto della casa e che ora mi sembra che non ci sia più. O forse è solo stato notevolmente tagliato. Non ricordo.

E ora la mente sta pure viaggiando avanti e indietro.

Ho iniziato ad odiare il Natale quando non l’ho più passato con la famiglia allargata. Finita la scuola andavamo a Varese dalla Nonna. E stavamo lì. E a Natale era bello. Il pranzo preparato dalla nonna e poi tutti a casa dello zio, con gli altri zii, i cugini e qualche altro parente di parente. E i giochi, e il gioco della torre e l’invidia dei cugini che avevano il conto al Credito Varesino e a loro regalavano i soldi man mano che depositavano le varie mance. E invece i miei soldi/regali sparivano in bot o obbligazioni, delle cose brutte e che non potevo certo portarmi a casa e giocare. Poi giocavamo al mercante in fiera e mi piaceva, anche se ora non ricordo più le regole. E poi la tombola, il caldo del camino dello zio e il loro bel presepe.

Poi basta, è successo che la nonna ci ha lasciato, i cugini sono cresciuti e il ramo milanese della famiglia si è allontanato da quello varesino, rimasto più compatto. E Facebook ora non è neanche di aiuto, che nessuno ce l’ha. E non ho neanche numeri di cell o email, per dire.

E così sono iniziati i Natali in tretudine, senza regali, senza gioia e felicità.

E ho smesso di divertirmi a fare il presepe, di attendere con ansia l’8 dicembre per iniziare le decorazioni, ho smesso di accendere tutte le sere le luci e fissare inebetito l’albero e vedere le diverse intermittenze delle catene luminose intrecciarsi tra di loro e creare giochi di luce e di ombre sulle pareti.

Poi però non si dice, ma nel frattempo si è aggiunto un altro ramo di un’altra famiglia alla mia vita. Con gli n-mila componenti, la voglia di stare insieme, e le cene, e i pranzi e l’allegria e i bimbi che urlano e i genitori che li sgridano senza successo e le risate e la ciacola continua.

E la cosa stride notevolmente con la mia famiglia, quella della non sopportazione del convivio perchè “non siamo fatti per queste baracconate”. E veramente, non comprendo come facciano a vivere bene, da soli con loro stessi, senza avere amici da frequentare e sentire e vederci e pranzare e ridere e scherzare. Senza vedere i loro fratelli e le loro sorelle, anche se è una cosa che non capirò mai visto che sono figlio unico.

E mi fa arrabbiare, perché invece io sono ormai diventato (o sono sempre stato?) l’esatto opposto. Perché io da solo con me stesso da solo non ci sto affatto bene. Che ho paura della solitudine e sento il bisogno di avere sempre qualcuno intorno.

Ed in realtà questa conclusione non ha neanche senso, ci sarebbero altre cose da dire, ma me le son perse per strada, sulla tastiera e tra le righe.

Eppure il libro è qui aperto e mi aspetta.

E c’è pure il caldo tentatore del lettino.

Boh, vabbé, domani si vedrà.

Mal che vada ci si sente il 22.

Quattro chiacchere con Rolling Stone

Oggi giornata interessante @ PoliMi.

Un seminario organizzato dai professori del Laboratorio di Metaprogetto.

Relatore: Carlo Antonelli, direttore di Rolling Stone Italia.

Un personaggio scoppiettante, forse addirittura esplosivo, assolutamente provocatore.

Affascinante, nel modo in cui ha raccontato il momento storico in cui è nato Rolling Stone, tutta la carica che aveva e quali sono i valori insiti nel brand in America.

Un brand che porta con sé la fiducia nell’esperienza diretta, non l’informazione ma la capacità di raccontare una storia, un giornale che allarga le coscienze senza confini definiti (musica, cinema, TV, letteratura, politica), un brand che è attento allo spazio pubblico, alla politica e che fa della cultura visiva una parte fondamentale della comunicazione.

Antonelli è stato implacabile nei raffronti con la realtà italiana, in cui però sono riusciti a trovare delle analogie per portare, con successo, Rolling Stone anche nelle nostre edicole.

Frasi, freddure, provocazioni, cinismo e forse anche un ego notevole.

Frasi che forse estrapolate dal contesto vogliono dire poco o nulla, ma che mi hanno comunque colpito.

E poi abbiamo trovato tutti quei distretti industriali, sparsi in Italia. Dove si lavorava e lavorava, da lunedì a venerdì. E allora rock ‘n’ roll per noi era quello che se ne stava da lunedì a venerdì chiuso nella sua uniforme, nella giacca e cravatta. E dal venerdì alla domenica si toglieva la sua polo con le Hogan, mostrava il tatuaggio e si sfondava con il SUV, drug e con altre cose che – per brevità – chiameremo Marrazzo

Snob. Radical chic.

Un personaggio che dice che – ehi – il mondo dell’editoria cartacea e delle riviste è in crisi. Non ha più senso fare una rivista cartacea che poi, per metà mandi al macero. Eppure è lì e la dirige, e sembra anche bene.

Si son ritagliati la loro fetta di mercato

senza andare contro i poveracci [le altre riviste musicali]; come Robin Hood siamo andati contro i giganti che facevano giornali gay tout-court, senza dichiararlo

hanno de-targettizzato il giornale, l’hanno reso senza tempo, collezionabile, inclusivo di tutti gli stili esistenti, rilassante.

Rolling Stone. Rock ‘n’ Roll style magazine.

PS: Carlo Antonelli assume Ritalin. E lo ammette pure.

PPS: se n’è uscito anche con un

ora per noi è rock Natalie, quell’armadio di due metri che si faceva le righe – e non solo – col badge della regione Lazio

È che a volte sparisco

Capita, ragazzi.

È iniziata l’università – ed è un massacro. Faccio ancora qualche ora a lavoro, per tutta una serie di noiosi motivi che non sto a spiegarvi.

Per questo mese non ho praticamente tempo, per far nulla.

In tutto questo, ne risento un po’.

Mi mancano tante cose da poter fare. Vedere gli amici, stare da soli noi due, fare un giro a Bergamo, andare al cinema per Bastardi senza gloria, Discrict9 e – soprattutto – Up, che vorrei vedere in digitale 3D all’Arcadia di Melzo ma – ahimè – è giusto un po’ dall’altra parte della provincia.

Passato questo mese di fuoco, dovrei tornare ai classici regimi di un universitario. Avere – si spera – un po’ di tempo libero e poter fare qualcosa.

Sono un uomo da 18 crediti

Tutta colpa del Laboratorio di Metaprogetto e dei suoi professori che se ne sono fregati delle classiche dinamiche di amicizia che si usano per formare i gruppi di lavoro e ci hanno imposto un metodo tutto loro, ignoto, infame e forse anche un po’ crudele, ma funzionale e tremendamente aderente alle dinamiche reali del mondo del lavoro.

Ci hanno illustrato tre tipologie di figure: gli smanettoni, quelli che sanno dove mettere le mani, come fare le cose, che sanno che funzionano i programmi; gli organizzatori, quelli che prevedono, tengono le redini dei progetti, coordinano il lavoro degli altri e sanno sempre quello che c’è da fare; i teorici, quelli fantasiosi, che hanno idee, vivono in un mondo tutto loro di fantasia. Successivamente ci hanno chiesto di dividerci autonomamente nei tre gruppi ed è stata fatta qualche modifica per pareggiare il conteggio.

Quindi la spiegazione: un buon gruppo, per funzionare, deve avere un organizzatore, uno smanettone e un teorico.

Poi la sorpresa. Gli organizzatori sono stati invitati ad avanzare verso la cattedra e sono stati definiti project manager. Ad ognuno di loro è stato assegnato un budget di 20 crediti, da usare per acquistare le altre due “figure professionali”, attraverso la forma dell’asta, ed il tema della ricerca da presentare.

Subdolo, astuto, crudele, geniale, tremendamente reale.

Perché sul project manager è ricaduto completamente l’onere di formare una squadra “equilibrata”, vincolato dal dover comprare ognuna delle altre due figure, col un budget limitato e il pericolo della forma di acquisto dell’asta, che portava a far salire il prezzo dei lavoratori ambiti, quelli bravi, con idee, capaci o anche solo quelli che sono riusciti a vendersi bene.

Da questi vincoli derivano molte possibili scelte, molte possibili strategie: meglio spendere poco per le figure professionali, comprando quelli “di medio livello” (o che sono reputati tali) per poter scegliere un buon progetto alla fine? Spendere tutto il budget (o quasi) per avere una star e rischiare di non avere abbastanza potere economico per comprare un’altra buona figura e rimanere con l’impossibilità di scegliere il progetto e trovarsene appioppato uno non molto interessante o di difficile realizzazione?

È stato interessante vedere come il problema del sapersi vendere bene e quello della conoscenza della persona da assumere si sia mostrato in tutta la sua crudeltà.

Per uno strano cambio di allocazioni deciso dalla segreteria, ci sono in corso con noi due nuove ragazze, provenienti da un’altra sezione. La prima si è presentata all’asta e non ha ricevuto alcuna offerta. Non è stata in grado di presentarsi, né dire qualcosa, in prima battuta. E mi è venuta subito in mente una discussione su Friendfeed: l’ignoto spaventa e ci sono selezionatori che cercano informazioni online sui candidati per capire chi hanno davanti. Per l’altra ragazza, invece, ci son state subito offerte. Non alte, ma ci sono state. Merito del suo modo di essere, di apparire, vistoso e fuori dal comune, che ha subito ispirato – credo – l’idea di una personalità interessante e creativa (senza ovviamente nulla togliere all’altra che – ripeto – non conosciamo).

Nello specifico poi è successo che una carissima, adorabile, simpatica e folle project manager (che so che sta leggendo queste righe) ha offerto 18 crediti (su 20) per essere sicura di avermi nel suo gruppo, rischiando su tutto il resto.

Yes.

Sono l’uomo da 18 crediti.

Il più quotato in questa sessione d’asta, tutto a beneficio del mio ego, subito riempito d’orgoglio.

Ammetto che la cosa non è stata affatto male, considerando che prima, in piedi, in attesa nel gruppo per essere messo all’asta un po’ tremavo e avevo paura del confronto e delle mosse che la percezione di me avrebbe generato.

Nessun problema quindi con la percezione di me. Però rimane il dubbio.

Essere l’uomo da 18 crediti, è veramente una buona cosa?

Tasse e crediti

Ok, sto male.

Anzi no, sono pure arrabbiato nero.

L’anno scorso non sono riuscito a dare un esame, di cui non ho potuto frequentare le lezioni causa lavoro e di cui ho scoperto solo alla fine che – per quanto le lezioni non fossero a frequenza obbligatoria – era obbligatorio presentarsi ai parziali per poter accedere all’appello estivo. Parziali che – ovviamente – non erano considerati come esami e quindi non rilasciavano la “giustifica” da presentare in ufficio (ed evitare che venisse calcolato come giorno di ferie).

Comunque… fatto sta che per il prossimo anno ho esami per un totale di 65 crediti. Aggiunti (obbligatoriamente) i 10 crediti dell’esame lasciato indietro lo scorso anno, arrivo a 75 crediti, che casualmente supera lo scaglione dei 73 crediti, da cui parte la maggiorazione del 30% della retta.

Calcolando che pago qualcosa più di 3500€/anno, fanno 1050 e più € aggiuntivi.

Per due dico due crediti di sforo.

[E il fastidio aumenta considerando che con la media che ho avrei potuto accedere alla riduzione del 50% della retta se fossi riuscito a dare e superare con un > 27 quell’eseme].

In compenso, essendo uno studente lavoratore, ho diritto ad una riduzione del 25% delle tasse, fino però alla 5ª fascia (su 10) di reddito. Ovvero al 25% di  1500€., cioè ben 375€.

E la cosa è semplicemente ridicola. Sei uno studente lavoratore, ti sbatti per portare avanti tutto, ma se lasci indietro anche solo un esame la tua fatica – dal punto di vista meramente economico – non è affatto ripagata, visto che al meglio ci sarà sempre un 5% di maggiorazione. Ridicoli.

[I am beautiful] Sinceramente e di cuore, Lore

Ci siamo conosciuti quest’anno in quel del Poli.

E ammetto che non ricordo neanche come abbiamo iniziato a parlare, ma è successo.

Poi facebook, le note, i tag, le chiaccherate durante le pause, le idee folli alle 2 di notte e le chattate.

Con te, con tutti voi del Poli ho sempre deciso di essere me stesso. Senza sbandierare, perché non devo fare le baraccate. Ma semplicemente non negare, parlarne al momento giusto e non in quello inopportuno. Perché era giusto conoscerci a vicenda.

Poi, con te, non ricordo neanche come siamo finiti sull’argomento. Eppure parlandone, con naturalezza, è uscito. Forse una mia battuta sottile, forse una mia risposta ad una tua domanda, forse altro boh, non so, non ricordo, ma alla fine non è neanche così importante. Fatto sta che il discorso è andato avanti tranquillo, senza che tu abbia fatto una piega.

E devo ammettere che è stata un po’ una prima volta. Naturale, senza problemi, senza conseguenze. Non ricordo più cos’era successo, ma ricordo che abbiamo parlato della situazione italiana, come nessuno faccia nulla, come la situazione dei diritti uguali per tutti ma non per alcuni non sia molto corretta. Fino ad arrivare al più recente like per la fiaccolata e alla tua voglia di esserci, ma non potevi per altri impegni.

Poi oggi, dopo settimane, scopro questa tua nota.

Una tua nota, prima di partire per un viaggio vagabondaggio per l’Europa. L’idea accennata e con troppi “se”. Quel trovarsi da qualche parte in Europa a chilometri da Bovisa, se avessi avuto le ferie e se avessi trovato qualche last di fortuna. Ovviamente portandomi dietro il Byb, che hai già visto/intravisto un sacco di volte, ma in effetti non sono stato così esplicito su chi lui sia per me, anche se forse non serve neanche vista l’evidenza dei fatti.

Ecco, in quella tua nota, prima di partire, dedichi una canzone a quelli a te più cari di questo anno di Bovisa.

E a me dedichi quella bellissima canzone della Cristina Aguilera, Beautiful. Una canzone che adoro. Che ascolto quando sono triste, che ascolto quando voglio un po’ di carica. Un testo che so a memoria, pure non riuscendo a far diventare completamente mio quel I am beautiful no matter what they say / words can’t bring me down / I am beautiful in every single way / Yes, words can’t bring me down, oh no / So don’t you bring me down today.

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E tu cosa mi combini? Me la dedichi, e mi scrivi pure un

A te Lorenzuccio mio un pò di autostima che ti fa bene. Canzone importante, parole forti. Vorrei fare di più per convincerti di quanto vali, e di quanto la fragilità che vedo in te andrebbe spazzata via, per ora una canzone, una sola, tutta per te. Negli anni farò il resto.

Non sai le emozioni che mi hai provocato. Per la canzone, che, cavolo, l’hai beccata in pieno! Per il Lorenzuccio, per il tirare in ballo la mia scarsa autostima. E quel negli anni farai il resto, che suona come una promessa, ma anche un monito. Come fosse un guarda che non ti lascio in pace finché non migliori.

E in un colpo solo hai individuo e colpito quello che reputo fondamentale in una relazione di amicizia. In una amicizia sono necessarie le parole al vento, quelle leggere e frivole, i dialoghi più seri, la condivisione, il confronto di interessi e attidudini, le esperienze, lo studio e il lavoro. Ma in una amicizia è necessario l’aiuto, il consiglio. Sì, per Photoshop, per il php, per la consegna, per l’idea. E in una Amicizia è quel do ut des senza l’ut des, quello senza la condizione. Quell’aiuto a migliorare sé e l’altro in quanto persone.

E per questo e anche se non so e non ricordo se hai l’indirizzo di questo blog, anche se non so se le leggerai (ma chissà… magari ti manderò io il link. Oggi, domani o tra un po’…), io, Giò, ti ringrazio.

Sinceramente e di cuore,

Lore.