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Cuore di pietra

Poi mi hai chiesto timidamente se potevi abbracciarmi.

E io ti ho detto di sì e quando ti sei staccato ho visto i tuoi amici occhi umidi brillare alla fioca luce del lampione.

Volevo dirti di non farlo, di non piangere per me perché alla fine non ne vale la pena.

Volevo stringerti di nuovo, fortissimo, e dirti che andrà tutto bene e che si uscirà da questa situazione e tu sarai di nuovo felice, io chissà.

Ma non l’ho fatto, e sono stato impassibile.

Ti ho solo fatto una battuta, chiedendo se quelle fossero lacrime, che forse potevo evitare.

Mi hai dato dello scemotto e ti ho risposto con un ‘anche tu’, mi hai abbracciato di nuovo e ho aperto il cancello e sono salito in casa.

Chiedendomi quale mostro dal cuore di pietra io sia diventato.

Ma adesso, a distanza di un’ora, non faccio altro che ripensare a quei momenti e a sentire un peso sullo stomaco che non sono capace di decifrare.

Goodbye London, goodbye my friends

Lo so che come mio solito al momento dei saluti sono stato piuttosto impacciato, forse persino più del solito.

Ma è che avevo bisogno di scappare via, girare l’angolo e non farmi vedere da te mentre piangevo.

Perché non riesco a pronunciare tutti i grazie che tu e il tuo fantastico lui vi meritate. E perché non mi sembra di meritare persone così amazing come amici.

E adesso, mentre faccio l’hipster che sorseggia il suo beverone al cappuccino al Joe & the juice muovendo la testa a ritmo di Last Night A DJ Saved My Life, nascondo di nuovo le lacrime dietro lo schermo di questo mac e facendo finta di imprecare con la wifi che non mi scarica un fondamentale wetransfer da 2,4gb.

Di nuovo.

Come al solito, miliardi di cose da fare, troppo poco tempo per farle tutte, voglia scarsa e una troppa stanchezza, sia fisica che mentale.

Ansia perché sembra impossibile fare tutto, perché di nuovo mi ritrovo incastrato in dinamiche che non mi piacciono ma, con la mia incapacità cronica di dire dei no fermi e di essere gentile, carino, disponibile e preoccuparmi prima degli altri e solo poi di me, non sono capace di uscirne fuori.

E ci si trascina, come al solito, vivendo un giorno alla volta, fino a che, veramente, non si arriverà al punto di rottura. Di nuovo.

Ciao, Bergamo

Sai, Bergamo, in fondo mi dispiace di averti trascurata così tanto, di averti vissuto così poco nell’ultimo periodo.

Non sono più riuscito a esplorarti correndo, cambiando strada ogni volta seguendo il verde dei semafori, per poi ritrovarmi su salite impossibili o noiosi pezzi in piano.

Non ho più preso e fatto giretti per il centro, giusto per fare due passi, vedere la poca vita che ti anima in settimana e osservare come sei bella quando dormi.

Non sono mai riuscito a esplorarti a fondo quanto avrei voluto. Non sono più riuscito a vedere la Carrara, Città Alta ha ancora molti punti a me sconosciuti. Non ho approfondito a dovere la tua night life del weekend.

Però questa sera ti ho vissuto. E non alla maniera del pendolare che cammina veloce verso la stazione e non pensa a te.

No. Questa sera è stata la sera di due chiacchiere con un amico, un bicchiere di rosé in quell’enoteca che tanto mi piace e poi due, tre, quattro passi, da piazza Pontida a Porta Nuova e poi indietro per viette e poi di nuovo avanti verso a Porta Nuova. Un po’ in circolo, un po’ a caso, persi dalle nostre chiacchiere.

E sai, Bergamo, il tuo silenzio, i tuoi ritmi rilassati e la tua eccessiva sonnolenza mi piacciono, mi mettono tranquillità e serenità. E so già che mi mancheranno, così come mi mancherà la possibilità di alzare gli occhi davanti a me e vedere Città Alta, splendida sempre a ogni ora del giorno e della notte.

Chiavi di casa

Praticamente, ieri sera ho perso le chiavi di casa.
Giustamente me ne sono accorto solo una volta arrivato davanti casa.
Penso di essere così stordito da essere uscito senza chiavi, senza chiudere casa e provo a citofonare ai pochi vicini che conosco.
Sarà l’età media elevata nel palazzo, sarà l’ora magari un po’ tarda, nessuno risponde.
Panico.
Ovviamente, il cellulare è giustamente scarico (basta giocare a Ingress, basta!).
Mi convinco che sì, ho lasciato le chiavi di casa in ufficio, sulla scrivania, sicuro.
Torniamo a Milano!
La macchina è parcheggiata davanti casa, ma le chiavi sono in casa.
Quindi corro (circa, visto la stanchezza) in stazione a prendere il treno back to Milan.
Salgo sul treno, che ovviamente è un Garibaldi e non un Centrale diretto che ferma a Lambrate.
Prendo il Mac, attacco il cellulare, inizio ad allertare mezza gente.
Chiamo i miei. Discussioni a non finire.
Intanto faccio preoccupare amici e amiche che però mi riempiono il cuore offrendosi di venirmi a prendere o ospitarmi per la notte.
Arrivo a Garibaldi.
Scendo in metro, ma non ho il biglietto.
Evito di usare quella figata dell’app visto la batteria scarica.
Litigo con le macchinette dei biglietti che hanno deciso di non leggere né la CC né il Bancomat. Grazie di esistere AMEX.
Prima metro persa, che era quella giusta. Il successivo passa qualcosa come un’infinità di minuti dopo.
Torno in ufficio, sperando di non fare casino con l’allarme.
Niente, sulla scrivania non ci sono.
Sarebbe stato troppo bello per essere vero.
Intanto arriva mio padre, che propone insistentemente di tornare al paesello, fa niente  degli amici che abitavano a Milano e che mi avevano proposto di stare da loro a dormire. Queste cose non si fanno, disse il genitore.
Intanto cresce fame, che ormai erano le 23 e io ovviamente non avevo ancora cenato.
Stamattina partiamo prima delle 7 per Bergamo
Arrivo davanti casa.
C’è l’uomo delle pulizie.
È la persona che praticamente conosco meglio del palazzo!
Mi apre cancello e portone.
Vado al pianerottolo.
Mi avvicino cauto alla porta.
Le chiavi erano lì nella toppa.

E vissero tutti felici e contenti.

Fortissimo

Alla fine sono state due settimane allucinanti.

Per fortuna che c’è stata quella parentesi di EXPO, con i Londinesi back in Milan e la solita cena nel solito posto.

Per fortuna che c’è stato un weekend per riprendere un po’ le forze.

E c’è anche stato un lunedì decisamente produttivo: certo, qualche scazzo qua e là è inevitabile, però il bilancio è assolutamente positivo.

Poi però le cose cambiano e proprio quando pensavi di avercela fatta, scopri che no.

Certo, eri un illuso a pensare il contrario, per la voglia di piangere fortissimo c’è e non te la toglie nessuno.

Il mio bellissimo tavolo rotondo vuoto

È un periodo strano, di nuovo.

Sto vivendo da mezzo eremita separato dal mondo, senza vedere praticamente quasi nessuno.

Abito a Bergamo, ma sembra sia difficile riuscire a organizzare qualsiasi cosa con gli amici del paesello o di Milano. Beh, nel senso: ovviamente sono sempre e solo che devo muovermi. Loro fare uno sforzo per venire a trovarmi, no. Poi lo proponi una volta, due volte, tre volte, alla quarta ti arrendi e fai spallucce.

Qui alla fine non sono riuscito a costruirmi un giro. Non si era mai riuscito a organizzare qualcosa con gli ex-colleghi quando ancora erano colleghi, figuriamoci se si riesce ora che sono ex.

Il progetto grande e spaventoso va avanti. E a rilento. Dico spaventoso perché è grosso e importante ed è una sfida per me. E c’era una prima parte che mi faceva paura e mi ha lasciato letterarlmente imbambolato a fissare uno schermo bianco senza sapere da dove cominciare. Eppure, superato l’ostacolo iniziale, sono in realtà molto soddisfatto dal risultato ottenuto finora.

Il problema però è di tempo: non è infinito e non ce la faccio a lavorare più di 8-9 al giorno. E la maggior parte del tempo è assorbita da un altro cliente che ha la priorità perché alla fine è quello che mi assicura entrate costanti a fine mese.

Però ci sono tanti boh nella gestione e nella collaborazione, che rendono difficile e faticoso il tutto.

Ci sono contatti che aspettano un cv e un portfolio aggiornato, ma torniamo al problema del tempo che manca, della forza che non sempre c’è.

C’è anche da capire cosa fare con questa casa. Questa bellissima casa. Ci stavo pensando questa mattina: la sala era inondata da una bellissima luce. Guardavo quell’angolo dove i divani si avvicinano, dove c’è quel mobiletto antico, la lampada e dietro i vasi IKEA con i rami che tanto mi piacciono. È bella. È accogliente, ma non riesco a farla vivere come vorrei. E tra qualche mese scade il contratto e bisogna decidere cosa fare dopo.

Tenere questa casa? Cercare altro su Bergamo? Cercare a Milano? Lasciare definitivamente l’Italia?

Sì, perché c’è la voglia mettermi di nuovo in gioco. Dare l’ennesimo colpo di coda e vedere come va. O forse fuggire di nuovo. Ma in realtà, ormai da cosa sto fuggendo, che sono lontano da tutto?

Però per il lavoro ho il solito problema: troppa esperienza in quello che non voglio fare da grande, troppa poca in quello che invece vorrei. E ha senso re-iniziare da junior a 30 anni e qualche mese?

Non lo so.

È come se mi sentissi in balia di forze esterne a me che non riesco a controllare molto.

Un giorno va bene e passa, l’altro invece pesa ed è faticoso.

E non lo dico, non ne parlo più con i diretti interessati, ma sento tantissimo il peso di questa solitudine. E direi che ormai ho la certezza che non è tanto vero che sono un orso capace di vivere da solo. Anzi, l’esatto opposto.

Certo, c’è l’hangout e le chattate (soprattutto con una cara amica dall’oltremanica, che ha dimostrato più e più volte quanto ci tiene a me), c’è lo snapchat, c’è il Facebook e il Twitter.

Però alle volte vorrei anche vedere occuppate tutte le sedie intorno al mio bellissimo tavolo rotondo.

Totale

Come sempre hai fatto uno di quei tuoi errori di valutazione, che consistono col fatto che un’operazione chirurgica, forse, non è una di quelle cose che ti puoi tenere per te e non dirla a nessuno. Una di quelle cose che se non la dici, non esiste veramente.

Il punto è che c’è quel misto di paura e ansia, ma non vuoi ingigantirlo neanche più di tanto. Non ha senso dare così tanto peso alla cosa con gli amici, ancora meno parlare con genitori e parenti. Perché far preoccupare anche loro quando non potrebbe non essere necessario?

E poi, trent’anni, una clinica a due passi da casa,  un tranquillo-in-giornata-sei-fuori, sarò in grado di cavarmela da solo no?

Ovvio che sì, per forza. Poi però finisce che ti fanno un’anestesia totale, ti dimettono alle 19 ormai con le farmacie di zona chiuse e il tuo compagno di stanza -tuo improvviso BFF- ti convince che forse è meglio non tornare a casa a piedi, con questo caldo, e ti offre uno strappo (beh, non guidava lui, ovviamente).

E poi, in serata, tentando di capire qualcosa dell’organizzazione delle medicine che ti faranno compagni per i prossimi giorni, ti rendi conto ancora una volta di quanto un’amica che ti scrive dall’oltremanica sia in realtà vicina.

E poi c’è anche chi prende tutto, sale in macchina, si fa troppi chilometri da Milano e viene a farmi compagnia. Almeno per la sera e per la notte. Per sicurezza. Che non si sa mai. Nonostante il giorno dopo debba comunque andare a lavoro e finire una valigia per un viaggio di lavoro.

E io, ecco, non so che dire, non so che fare: a parte avere gli occhi a cuore per avere amici così.