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Dicono che sia un bambinetto

C’è chi dice che io sia un bambinetto.

Ma questo test non ne è molto convinto:

Sei rimasto bambino per il 71%

Bambino in positivo. Le tue risposte al test mostrano che una parte di te è rimasta inalterata rispetto alla tua infanzia: questo ti permette di cogliere alcune sfumature della realtà  e della vita che a molti sono precluse, di percepire eventi e occasioni in modo spontaneo e privo di condizionamenti “adulti”, di esprimere i tuoi sentimenti e le tue emozioni con sincerità , ma non per questo senza il dovuto pudore. Ti trovi particolarmente a tuo agio con i bambini e loro ti apprezzano molto, perché la tua capacità  di tornare bambino insieme a loro fa sì che tu ti ponga al loro pari, senza perdere comunque di vista le responsabilità  educative e affettive che hai nei loro confronti. Allo stesso modo rispetti le convenzioni date dall’appartenenza al mondo degli adulti nelle altre sfere esistenziali. Non smettere mai di coltivare questi aspetti di te. Scrivici se hai apprezzato questo test.

Istintiva aggressività 

E dalla sbottata dell’altra sera che ci penso.

E devo ammettere che pensarci non mi fa troppo bene.

Sostanzialmente, sono sempre stato molto istintivo. Ma di una istintività  che non sento mia, forse troppo aggressiva o “cattiva”.

E così, per migliorare me stesso agli occhi degli altri, ho tentato di lavorare sul mio autocontrollo, sul mitigare e bloccare questa istintiva aggressività .

Ma il problema è che questo autocontrollo, questa calma apparente, a volte viene meno. Viene meno, effettivamente, con i miei genitori, con cui questo filtro non è mai attivo. E viene meno sotto stress o quando sono stanco/addormentato/rincretinito.

E non ne sono per nulla fiero. Perchè alla fine non è che mi diverto a offendere o far del male agli altri. Però mi viene dannatamente istintivo. Ho un carattere da far schifo. Lo so. Ma è ancora più brutto saperlo e non riuscire a far nulla.

Soffoco

Non ce la faccio più. Ogni cosa che faccio è sbagliata, qualsiasi cosa chieda, dica, voglia è sempre no, no e no. Si mettono a fare i calcoli dei chilometri che faccio con la macchina, a controllare gli orari e i viaggi fatti col telepass, a leggere la mia posta e afrugare tra i documenti della mia banca. E va a finire che quel che mio non è mio, perchè mi spariscono i soldi dal portafogli o i buoni pasto dal carnet. Le mie cose vengono prese, spostate, spente, rovinate, buttate. E si permettono pure di sindacare sulle mie vacanze, sul fatto che tanto possiamo spendere anche di più, ed è meglio, perchè così è tutto più sicuro, più bello, meno bettola, perchè tanto i soldi, per una vacanza l’anno, li abbiamo. Peccato che, al momento, la mia vacanza l’ho pagata con i miei soldi. E loro non mi hanno dato assolutamente nulla, nè hanno proposto di darmi qualcosa.

Perchè non riescono a capire che ho bisogno dei miei spazi, che mi sento soffocare, che non possono starmi così addosso. Ho bisogno di vivere, fare i miei sbagli, essere libero di vedere i miei amici senza che loro si permettano di sindacare sul chi, quando e come posso vederli.

E io non riesco a gestire questa situazione. Non sopporto questo loro intromettersi nella mia vita. Si, ok, sono i miei genitori e un po’ è permesso. A me sembra che esagerino. Troppo.

E si litiga, si litiga e si litiga.

E io voglio solo andarmene, di qua.

Sette giorni

L’ultima settimana è stato un susseguirsi di giornate lunghe e stancanti..

Venerdì/sabato la trasferta a Bologna, domenica la corsa da Bologna in treno fino a Magenta e poi di nuovo in macchina a Milano a lavoro. Lunedì tutti i casini vari ed eventuali a lavoro, ovviamente accompagnati da un pesantissimo mal di testa. Martedì mattina invece mi sono messo le vesti di un mac-consulente e con un’amica ho girato il legnanese alla ricerca del computer per lei, tranne poi scappare – come al solito – a Milano a lavoro. Mercoledì mattina, di nuovo mac-consulente, poi di nuovo lavoro, poi, la sera, Alice-VoIP-consulente da un’altra amica. Oggi, sveglia all’alba per recuperare Love che mi ha accompagnato a Milano, per il test d’ingresso di Arte&Messaggio. Il casino per arrivare, trovare parcheggio, il riuscire a ritrovarsi, la passeggiata per parco Sempione e gli acquisti in centro, poi la metro e il lavoro. E ora.. ora ho gli occhi pesanti. E voglio andare a letto. Anche se è da domenica che mi è difficile stare bene, in quel letto, da solo.

Bologna ’08

Attraversare le vie di una città  a misura d’uomo, circondato da suoni e colori.

Macinare chilometri, forse un paio di troppo, stringendo una mano e sentirla calda, viva, sentirla mia.

Commentare, ridere, correre a fare qualche foto e fermarsi ad aspettare gli altri.

Osservare con occhi curiosi il pacifico fiume che felice, allegro e gioioso scorreva tra il traffico e le case.

Vedere di essere visti dai cittadini, dai curiosi, dagli automobilisti fermi nel traffico, dagli studenti sui balconi, dalle vecchiette nascoste dietro le tende.

Gli occhi umidi durante i discorsi finali.

Un senso estremo di libertà , di poter esser me stesso, senza alcun vincolo.

Avere ancora una volta la conferma di non essere solo, di essere tutti uguali e ognuno diverso.

Ma anche la brutta sensazione di non essere visti da chi doveva vederci, di essere ignorati da chi ci dovrebbe ascoltare, di non essere considerati da chi dovrebbe fare informazione.

Questione di (auto)limitazione e fiducia reciproca

Argomento spinoso.. e capisco come si possa sentire il Gatto.

E, sinceramente non so neanche se mi conviene scrivere qui certe cose, visto che qualcuno (fiu fiuuuu) legge. E abbiamo visioni un po’ diverse su certe cose. E non vorrei che questi miei pensieri abbastanza sconclusionati possano creare qualche problema. Ma siano, invece, uno spunto per costruire qualcosa, per ragionare a vicenda sui rispettivi caratteri e sul modo di sentire e percepire il medesimo avvenimento. E di crescere, col confronto.

Perchè io, sostanzialmente, sono per la “non limitazione” dell’altro e, di conseguenza, per la “non limitazione” di me stesso. Sì, esatto. Questo principio è proprio da leggersi come un “fai pure tutto quello che vuoi”. Io mi fido di te. E ciò è possibile solo perchè io ti amo e tu ami me, perchè abbiamo costruito tra di noi qualcosa che è veramente importante.

Un incontro con un ipotetico terzo non lo vedrei come motivo di stare male o essere geloso, perchè rientrerebbe nel discorso di fiducia di prima. Io ti amo e tu ami me, quindi con questo terzo tu non faresti nulla che non dovresti fare. Anzi, neanche. L’idea che tu, Amore, faccia qualcosa che non dovresti fare, è esclusa a priori, visto che ci amiamo e io mi fido di te.

Ma se poi, con questo terzo, ci fai qualcosa, allora è un problema. È però un problema tuo, non mio. È tuo, perchè allora vuol dire che non mi ami veramente. È tuo, perchè vuol dire che tu sei stato scorretto nei miei confronti. E allora, solo allora, credo di essere in diritto di stare male, essere arrabbiato.

Certo, questo è il mio principio di massima. Ed è altrettanto ovvio che poi tutto dipende dalle altre variabili.

Perchè, ad esempio, so che tu, al contrario di me, stai male in certe situazioni. E cerco quindi di agire di conseguenza e non far succedere certe cose che so che ti possano far star male.

Cose che so.. sapere.. Ma come faccio a saperle? Come faccio a sapere cosa ti urta?

Credo sia possibile solo con l’esperienza, con il conoscersi reciprocamente. Ovvero vivendo, essendo se stessi, essendo una coppia, sbagliando, sbagliando senza sapere di stare sbagliando.

Il brutto degli sbagli che fanno stare male l’altro è che l’altro deve dirtelo, deve fartelo sapere o tu devi riuscire in qualche modo ad accorgertene. Per poter chiedere scusa, per rimediare all’errore e per imparare dall’errore stesso. E la prima cosa che si impara è di non sottovalutare o essere superficiale su azioni, fatti, progetti, idee, desideri e speranze che invece sai (perchè l’hai scoperto sbagliando) che sono importanti per l’altro.

Prima ho volutamente puntualizzato sbagliando senza sapere di stare sbagliando. Perchè il caso dello sbagliare sapendo di sbagliare rientra nel discorso di fiducia di prima. Io ti amo e tu ami me, quindi non puoi sbagliare (e farmi male) sapendo di sbagliare (e di farmi male). Anzi, neanche. L’idea che tu, Amore, sbagli (facendomi male) sapendo di sbagliare (e di farmi male), è esclusa a priori, visto che ci amiamo e io mi fido di te.

E allora, se tu sbagli sapendo di sbagliare, è un problema. E, come prima, è un problema tuo, non mio. È tuo, perchè allora vuol dire che non mi ami veramente. È tuo, perchè vuol dire che tu sei stato scorretto nei miei confronti, sapendo di esserlo. E forse vuol dire che le cose dovrebbero un po’ essere messe in discussione.

Tornando invece al discorso generale, volevo evidenziare un’altra variabile. È quella dello stato della relazione, lo stadio in cui si trova. Se è appena nata, se vegeta in qualche modo, se si avvia ad un misero declino.

Poniamo il caso che ci sia conosciuti da poco, che la relazione (o come la vuoi chiamare) si trova proprio all’inizio, che sta muovendo i primi passi. Poi una vacanza programmata da tempo e qualche chilometro di distanza. E poniamo il caso che tu, che sei ancora nella grande afosa città  decida di uscire con un altro, dopo aver condiviso, in questi primi giorni, un sacco di bei momenti (intimi, tra l’altro e non solo!).

Beh, sinceramente.. ma che cavolo ti viene in mente? Guai a te (e dico guai a te!) se esci con Tizio Caio Sempronio solo per una birra e solo per fare quattro chiacchiere punto e basta, e comunque lui sa che ci vediamo.

E io, sinceramente, col cavolo che me sto zitto!

Questione di nomi e sigle

Non so per qualche strano e assurdo motivo mi sia venuto in mente ora, ma io ho sempre voluto un PowerBook. Sì, ok, ora ho un bel MacBook Pro. Che esteticamente uguale al PowerBook ed è pure molto più power, con un cuore tutto Intel e uno schermo con retro illuminazione a led.

Però il PowerBook aveva una cosa favolosa, che si è persa con “nuova generazione”: il nome. Perchè il PowerBook era ed è il PowerBook. Che poi lo potevi scrivere anche pauerbuk, a era uguali. Capivi esattamente cos’era, domandandoti solo se era il piccolino da 12″, il medio da 15 e il maxi da 17.

Ora invece.. il PowerBook è morto. E vive il MacBook Pro. Se ne parli, soprattutto a voce, lo potresti chiamare amichevolmente MacBook. Però così si confonderebbe con il fratellino bianco. E tu non vuoi che uno pensi che tu abbia quello bianco piccolo tanto caruccio. Se però lo chiami MacBook Pro.. ecco, allora diventi uno sborone, vuoi fare il figo, perchè hai aggiunto, hai specificato quel Pro finale. E poi.. prova un po’ tu a pronunciare mecbucpro. Non è troppo pesante, troppo “c” “c”, decisamente poco scorrevole? Ma si potrebbe pensare di omettere il mecbook. Alla fine, con l’Air, l’abbreviazione funziona. Può essere chiamato così, senza specificare che è un mecbuc. Perchè l’Air è l’Air. È il computer può sottile del mondo, anche dei Vaio, che entra nelle buste porta documenti americane. E con il Pro? No, uff, non lo puoi neanche chiamare solo Pro. Cos’è il Pro? Il MacPro? L’account pro di Flickr? No, no, non rende.

E quindi, tutte le volte, decidi che devi scegliere. Se fare lo sborone o far confondere il tuo amato mac. E, nel caso, decidi di fare una volta l’uno, una volta l’altro. Così, grazie al potere della media, tutto si riequilibra. Chiedendo però, allo Zio Steve, di pensare anche a queste cose fondamentali (e basilari) quando sceglie il nome per un prodotto.