Archivi tag: cronache

Il buongiorno si vede dal mattino

Ieri sera ho fatto tardi, tardissimo, davanti al mac, come al solito.. E ovviamente oggi avevo sonno, tanto sonno.

Alle 10, arrivano in camera mia, mi alzano le tapparelle con quella maledetta luce solare che mi batte diretta sugli occhi e mi tirano indietro le coperte, giusto per svegliarmi.

Dopo un po’ mi alzo, con gli occhi completamente chiusi, tiro di nuovo giù le tapparelle e mi rimetto a dormire.

Ma per loro no, dovevo alzarmi. E iniziano a stressarmi, che è tardi, che ho dormito abbastanza, che settimana prossima parto e non ho ancora preparato nulla. Ovviamente, loro sono arrabbiati. E sono talmente addormentato che capisco solo qualche parola ogni tanto in un bla bla bla continuo e fastidiosissimo.

Così, si va avanti per due ore a suon di tiro su/tiro giù le tapparelle, di coperte tolte e di urla varie. Finchè, alla fine decido di alzarmi, verso mezzogiorno.

Probabilmente uno zombie ambulante avrebbe avuto una cera migliore della mia.

E quindi, la beffa: “ah, ma avevi veramente sonno?”

No, figurati, stavo solo giocando a far finta di dormire, che è così divertente sentirvi urlare!!!!!

Fame e colleghi

A volte mi chiedo perchè il baretto sotto l’ufficio, nell’ora dell’aperitivo, non pensa di offrire ai propri clienti (ovvero.. tutto l’ufficio) qualche schifezzina da mangiare: pizzettine, bruschette o anche solo patatine. In nostro baretto offre solo, a giorni alterni, qualche brioches.

Così abbiamo trovato il “nuovo” baretto: stuzzichini a non finire.

Però, ovviamente, non si può uscire in massa e conviene andare divisi, in modo da non lasciar mai completamente sguarnito nessuna funzione della catena di lavoro.

E così, ultimamente, andavo sempre assieme a un giornalista e a uno stagista, al “solito” baretto, rifacendomi sulle brioches. Oggi, però, avevo fame. E delle brioches non mi sarebbero bastate. Oggi, per me, sarebbe stato molto meglio spizzicare e mangiare diverse schifezzine.

C’era così bisogno di fare un “cambio di gruppo”, per poter entrare a far parte della fazione del “nuovo” baretto. Ma (perchè mi stupisco?) nessuno si è proposto di fare cambio con me, pur considerando la mia “necessità” di mangiare, e molto.

Così.. o me ne andavo da solo.. oppure andavo con gli altri al “solito” baretto. E ho optato per la compagnia. E ho perso il cibo, visto che oggi – sfiga vuole – che non c’era neanche una brioches. Cioè, una c’era. Era grande come un terzo di una brioches che uno definirebbe piccola. Era assolutamente minuscola. E costava la stessa cifra.

E così, son qui che muoio di fame. Potevo ordinarmi una pizza, dai kebhabbari qua sotto, ma ho preferito evitare l’olio di motore che utilizzano di solito per condirla. Oppure potevo prendere, farmi 15 minuti a piedi, e arrivare nella pizzeria al trancio buonissima, che però nessuno dei colleghi apprezza. E che non consegna a domicilio sotto una certa cifra, ovviamente.

E così, son qui che muoio di fame.

E sì, è vero, questi non son problemi gravi.

Però a me questi comportamenti, questo menefreghismo, questa non volontà di venire (per una cazzata) incontro agli altri, genera molto – troppo – fastidio.

Again

Un pomeriggio bellissimo, anche se dalla partenza un po’ burrascosa, complice una genitrice con un’ottimo tempismo nel chiedere i favori e che sa far leva (ovviamente gridando) sul fatto che non li considero mai, mentre corro per gli amici.

Un pomeriggio inizialmente non stupendo, nuvoloso, con qualche gocciolone. Un pomeriggio che poi ha regalato caldi raggi solari che facevano splendere quel piccolo lembo di natura intorno al Ticino e al Naviglio.

Una macchina fotografica al seguito. E tante foto. La qualità e la bellezza son quello che sono. Ma l’acqua increspata del Ticino, i rami pieni di libellule azzurre, la scalinata di Villa Clerici, le ochette che giocano nell’acqua.

E poi finisce il pomeriggio. Si fa tardi. E si torna tra queste quattro mura che non sopporto. Cena. Le stesse, identiche, domande sulla Grecia. Le stesse identiche risposte. Poi le stesse, solite, polemiche sulle mie uscite serali, sui miei rientri. Sempre le solite cose dette, da una parte e dall’altra. Nessuno si muove dalle sue posizioni.

Ma loro, questa volta, giocano il jolly. Tirano fuori il fattaccio di un paio di anni. Che li ho fatti preoccupare, che son stati male, che erano in ansia, che non sapevano dov’ero. Tutte cose giuste, che condivido, che mi spiace che si siano sentiti così. Ma loro non si sono mai preoccupati di andare oltre questo, di andare oltre la facciata. Non hanno mai voluto sapere il perchè, non hanno mai voluto sapere come stavo male in quei giorni, in quei momenti, come mi sentivo bloccato, ingabbiato in una vita, un’università, un futuro che non sentivo mio, con delle persone che dicevano di volermi bene ma non mi capivano, non mi comprendevano, non mi chiedevano, senza nessuno con cui parlare, con cui poter essere veramente me stesso, dovendo stare nascosto, sentendomi diverso, quindi escluso. Loro non mi hanno mai chiesto il cosa mi ha spinto oltre, cosa mi ha fatto superare, per una volta, con tragici risultati, quel limite che mi ero sempre posto, che non mi aveva mai fatto bere più di tanto, che non mi ha mai fatto fumare, nè drogarmi.

Ma quella sera si era instillato in me la voglia di fuggire da quella situazione, insopportabile, che mi stava schiacciando, che non mi faceva più vivere, che mi stava soffocando. E quindi ho tolto i limiti, ho disattivato il buon senso. Ed è andata come è andata.

Ma non capiscono, non vogliono chiedere, non vogliono sapere. E tirano fuori l’argomento. Come se lo avessi fatto per dispetto a loro. E invece non capiscono che loro non sono stati il fine. Ma la causa.

E io, questa cosa, non l’ho mai detta. Me la son sempre tenuta per me. Con loro voglio parlare dell’argomento il meno possibile. Ma loro no. Perchè ogni scusa è buona per tirarla fuori. Per dire sempre le stesse cose, per farmi sempre gli stessi rimproveri. Perchè poi non conta quello che è successo dopo, che mi sia comportato “bene” o altro. Anzi, non conta che quello sia stato l’unico fattaccio. Perchè per quanto possa fare una cosa giusta, buona e brava.. no, quella perde ogni valore appena faccio qualcosa che appare ai loro occhi sbagliato, brutto e cattivo.

Perchè loro, han fatto tanto per me. Ma io, per loro, solo una cosa: preoccupazioni.

E a me, sinceramente, la frase ha fatto gelare il sangue. E così me son corso, in camera, a piangere sopra questa tastiera.

(Brutti) giorni di lavoro condensati in un unico post

Come dicevo qualche post fa, ormai certe cose che succedono a lavoro non mi danno più così tanto fastidio, ultimamente. Però mi è venuta voglia di scriverle. Non so perchè.. sicuramente non per sfogarmi, come prima. Forse come promemoria, per ricordarmi di come si comportano certe persone e non far cadere nel dimenticatoio certi fatti.

Fatto sta che nei giorni scorsi c’è stata una “transizione” di un cliente. Era cambiato il sistema di “chiusura” dei file, che prima in realtà venivano lasciati aperti. Poi, di punto in bianco, quando già avevamo lavorato il tutto al solito modo, veniamo avvisati che in realtà deve essere chiuso e mandato in tipografia in pdf.

Già.. in pdf. Come se il pdf non ha miliardi di impostazioni. Come se esiste una sola tipografia al mondo. E, dovendo chiudere il file praticamente abbiamo dovuto rifare tutto, visto che prima la lavorazione delle immagini era un puro segnaposto, visto che poi ci pensavano altri a concludere il tutto. Il capo, quando chiedo dettagli sulle impostazioni per il pdf cade dalle nuvole. Mi passa il numero di questo nuovo responsabile. Provo a chiamarlo. Ovviamente era irraggiungibile. Quando finalmente riesco a contattarlo.. mi risponde decisamente male, con un “Io ho pagato per 8 pagine chiuse, tutto il resto son cavoli vostri”. No comment.

Chiudiamo questi cavolo di pdf in qualche modo, possibilmente alla più alta qualità possibile (che vi si intasi l’ftp!). Peccato che era impossibile fargli intasare l’ftp.. visto che non ci avevano dato l’indirizzo. E questo simpaticissimo tizio era ormai irraggiungibile, visto che non rispondeva più all’unico recapito che avevamo. No comment, again.

La mattina un’altra collega riesce ad inviare il tutto. E, ovviamente, non andava bene. Chiamano, arrabbiati neri, perchè loro-dovevano-andare-in-prestampa-e-noi-stavamo-bloccando-tutto. Mancavano le marcature, i crocini (queste cose, dirle, no?) ed erano sbagliate le dimensioni di pagina. Ebbene sì. Le avevano cambiate, senza dirci nulla. La collega sistema tutto al volo. Poi segue lei la cosa per aggiornare le varie mastro con le nuove dimensioni, i nuovi font, il nuovo stile. Poi la collega va in ferie.

E questo lunedì inviamo le nuove pagine. Le inviamo lunedì pomeriggio, tranquilli che tanto le mastro erano state aggiornate. E invece.. ci chiamano martedì pomeriggio, mentre io ero al bar. Arrabbiati neri, perchè era di nuovo tutto sbagliato. Parlo di nuovo col simpaticone, che si arrabbia perchè gli ho chiesto cosa non andava visto che (secondo lui) dovrei saperlo. Ma visto che lui non ha parlato con me e visto che la cosa non l’ho seguita io, forse era il caso di dire gli errori così potevo sistemarli in fretta, visto che poi loro-dovevano-andare-in-prestampa-e-noi-stavamo-bloccando-tutto, again. E lui, maleducatissimo, come al solito. E quindi a sistemare tutto al volo, in un’agitazione tremenda, con la paura – per la fretta – di fare qualche altro errore. Ansia. Poi, finalmente, spedito tutto. Momenti di panico, ogni vlta che squillava il telefono, temendo fosse lui, di nuovo, arrabbiato. E invece, fortunatamente, era tutto a posto. Avevo sistemato nel giro pochi minuti quel che la mia collega avrebbe potuto fare, con calma, in una settimana.

E poi, ieri. Problema con una pubblicità, uscita male (malissimo) in stampa. Un po’ di indagini.. e si scopre che è un bug di xPress. O meglio, xPress che non digerisce certi pdf, ma se ne frega, non da’ messaggi di errore e l’unico modo per accorgersi dell’errore è con i controlli, visivi, che si fanno a fine serata, dopo una lunga giornata. Controllare pagine di box pubblicitari che non assembliamo noi, che non sappiamo come dovrebbero essere nè le “criticità” da controllare. Comunque, si era instaurato un dialogo tranquillo e sereno, volto alla risoluzione del problema, sia col responsabile del progetto, sia col signore che ci passa le pubblicità, sia poi col capo, in una riunione che non finiva mai. Un’ora e passa in quell’ufficio, a gelare, vista l’aria condizionata puntata sulla temperatura polo Nord.

Tutto tranquillo, si vagliano le soluzioni, si parla, si decide cosa fare, si muovono un po’ di battute e frecciate, finchè la collega non se ne esce fuori con un “beh, ma chi doveva fare i controlli finali per quelle pagine?”, guardando verso di me. E lì, sinceramente, non ho avuto parole. Perchè sì.. il controllo finale di quelle pagine l’ho fatto io. Peccato però che quelle pagine vengono controllate sia quando si fanno (e le ha fatte un’altro collega se non sbaglio), sia al momento della spedizione (ed è lei che le controlla e le spedisce), sia il controllo finale (che di solito, per quell’intervallo di pagine, faccio io). Però, insomma. Una cosa così, col capo, non si dice, nè si fa. Perchè non si stava parlando di un “mio” sbaglio, di chi era la colpa. Si stava parlando in generale. Siamo un gruppo e si lavora in gruppo. Ho sempre pensato che lo sbaglio di uno fosse lo sbaglio del gruppo. Ma se è così che deve funzionare.. beh, allora qualche sassolino dalla scarpa me lo voglio togliere. Perchè, insomma, vogliamo parlare di quando, qualche giorno fa, è andata su due pagine affiancate, la stessa pubblicità? E lì, in quel caso, chi doveva il controllo finale? Chi le aveva lavorate quelle pagine? E mi sembra che, in quel caso, non si è andati dal capo a parlarne. E io, non ho lanciato frecciatine e battutine, io, in quel caso, non ho detto nulla a nessuno. E io, non ho sottolineato il fatto che quell’errore non fosse mio, ma suo. Perchè, anche io, un po’, mi sentivo in colpa, per non aver controllato anche io, di nuovo, quelle pagine che già lei avrebbe dovuto controllare e che non erano mio “compito”.

Ma a quanto pare, sbaglio sempre come comportarmi.

Sbaglio a dare fiducia a certi colleghi.

E forse, io, dovrei pensare a ripagare qualcuno, con la stessa moneta.

E da questo momento, mi spiace, noi non siamo più un team.

Io sono io e rispondo solo dei miei errori.

Sinceramente

Sinceramente sono stufo di tornare a casa e trovarti sveglia, ad aspettarmi. E a iniziare una litigata appena giro la chiave nella toppa. Per dire sempre le stesse identiche cose che, tradotte, implicano che io possa mettere il naso fuori di casa solo per andare a lavoro e nient’altro. Neanche uscire nel w-end o anche solo andare a prendere un gelato in piazza. E no, non dirmi di telefonarti. Perchè sai benissimo che è solo ipocrisia. Visto che poi litigeresti al telefono, con tuoi no, no, no, no. E ti chiuderei il telefono in faccia. 

 

Io non posso, non riesco a continuare così. Mi spiace.

Soddisfazioni. O quasi.

Gentile xxx,
le comunichiamo che ha sostenuto positivamente il test di ammissione al corso di grafica

olè!

La informiamo che quest’anno il Comune di Milano ha deciso di valorizzare i propri corsi di eccellenza introducendo criteri di selezione più articolati.

Per il corso di grafica e di illustrazione è prevista anche la valutazione di titoli di studio e di eventuali esperienze, per questa ragione le chiediamo di inviarci un sintetico curriculum che ci consentirà di perfezionare la sua valutazione

Doh!

Motociclisti. Hoavutotantapaura.

Stavo tornando a casa, distrutto da una giornata niente male a lavoro.

Calmo, tranquillo per la mia strada. Strada che, nello specifico, passando nel sottopasso di Scarampo/Serra, si restringeva ad una corsia (quella di sinistra), visto che (dice il Byb) lo stanno imbiancando.

Fatto sta che me ne esco calmo e tranquillo dal sottopasso ristretto ad una corsia, andandando alla mia bella e tranquilla andatura cittadina post lavoro e metto la freccia per tornare sulla prima corsia di destra, visto che – si sa – di notte ci sono pazzi che vogliono sfrecciare.

Finalmente non arriva più nessuno e inizio a spostarmi sulla destra e – come me – noto che vogliono fare la stessa manovra anche altre macchine più indietro. Esco quasi dalla mia corsia e compare, all’improvviso, nell’angolino dello specchietto, un motocicista. Arriva da un’altra strada che si immette su quella che stavo percorrendo ora. Entra nella corsia di accelerazione, supera una macchina sulla prima corsia, entra sulla seconda e continua a spostarsi sempre più verso sinistra, per entrare sulla terza corsia, ad elevata velocità.. e sembra quasi che mi punta. Do’ una brusca sterzata (ed una frenata) per evitarlo e lui incurante continua alla sua velocità e lo vedo scomparire, lì davanti a me, zizgagando.

E io, in realtà, ho avuto paura.

Paura di uno che arriva a velocità folle da un’altra strada, si è buttato sulla “mia” strada, ha superato tutto e tutti e mi ha tagliato la strada (3 corsie + quella di accelerazione bruciate in un secondo). Ho avuto paura di uno che percorre a quella folle velocità una strada pericolosa, piena di buche, in piena notte. Ho avuto paura di non riuscire ad evitarlo e che lui si schiantasse contro la mia portiera. E mi sono immaginato la moto sbalzata chissà dove, lui per terra, la telefonata al 118, l’ambulanza, i lampeggianti della polizia, il traffico bloccato. Ma ho avuto paura anche di controsterzare troppo e finire contro la barriera in cemento e prendere il volo. E farmi male, distrugger la macchina. Così, per nulla, per colpa sua.

E non lo capisco il desiderio di velocità, di infrangere i limiti, di mettere a rischio la propria vita (cavoli, vai in giro su due ruote, mica in un cassone con quattro!) e degli altri. Sì, anche degli altri. Perchè, credo, se uno ti viene addosso e si fa male, tanto male, e non è neanche colpa tua, certamente non stai bene, ti senti un po’ la causa di tutto. O almeno, io mi sentirei così.

E così per tutto il viaggio ho avuto questa bruttissima sensazione addosso. Sì, ok, va bene, non è successo nulla. Me se non mi fossi accorto che arrivava? Se non avessi sterzato e frenato in tempo? Se mi prendeva in pieno?

Ci sono eventi, attimi che mi rimangono impressi.

E continuo a pensarci, ragionarci.

Forse troppo.

E a starci male.

Forse troppo.

 

PS:  Uscita obbligatoria al casello di Arluno. Autostrada ristretta da 3 corsie ad una sola. E un pazzo, il più furbo di tutti, che arriva a tutta velocità sulla seconda corsia. Vuole rientrare, visto che nel giro di pochissimo la corsia diventa unica. Peccato che sull’unica corsia disponibile c’ero io. Con la mia solita andatura tranquilla da profonda notte, su un’autostrada letteralmente tempestata di lavori in corso, da anni. E così mi vede, capisce che non può rientrare e tira dritto, tirando su tutti i segnalini “restringi corsia” ed evitando per un soffio una ruspa lì parcheggiata. Senza abbassare minimamente la velocità. Altro spavento. Ma continuo con la mia solita velocità. Esco col telepass. E indovinate lui dov’è? E’ fermo al casello, in coda, per pagare in contanti.

Non ho parole. Ma quanto è stupida e scellerata la gente?

E fuori cade la pioggia

Finito presto, oggi, a lavoro.

E si torna a casa, mentre fuori cade la pioggia.

Tuoni e lampi riempiono e illuminano il cielo.

Esteticamente t belli, favolosi: quell’istante di luce abbagliante disegna strane figure.

Ma sono anche inquietanti. E apocalittici.

Una voce, però, mi tranquillizzava, mentre la macchinina camminava pian piano verso casa.

Ma poi, comunicazione interrotta e telefono scarico.

E il viaggio, solitario, verso il riposo, arrivando poco prima che un fulmine togliesse la corrente la corrente all’isolato, bloccando il cancello automatico, e il suo tuono scuotesse i vetri.

Davanti alla porta di casa, tutti i gatti, infreddoliti e impauriti. Una carezza a tutti, prima di entrare e pensare alla cena e al riposo..