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È che a volte, la vita vera ritorna a far capolino

Perché qui, anche se a volte si parla solo di Mele, GaGa, si copiano incollano cose figose sul design, in realtà la vita va a avanti.

Va avanti, come al solito, anche se uno la vuole un po’ lasciare fuori da queste pagine bianche e magenta.

E uno la vuole lasciare fuori perché come al solito non bastano mai le lacrime, la rabbia, la tristezza e quel senso di spaesamento di essere a casa e non sentirsi a casa.

Perché ti scontri con un muro che non vuole sentire le tue ragioni, che ha deciso che la tua è la scelta (come se fosse sbagliata), che porta dritta all’inferno.

Perché quando fai notare che qualcuno ha detto queste parole, parte a rinnegare, ad accusarti di essere matto e di avere inventato tutto.

Ti accusa di esserti allontanato e di non parlare più. Ma lo so, è voluto. E li avevo avvisati. Dopo mesi insopportabili li avevo posti davanti ad una scelta, sperando che almeno quello li spronasse in qualche modo.

O mi accettate per quello che sono, o non saprete più nulla di me.

E invece niente, mi sono sbagliato.

Qui si pretende di poter non accettare un figlio e che continui a comportarsi come tale.

E nel calderone delle cose oscene fatte dal figlio genero, tiri pure in ballo la copertina di un libro (Trueblood nello specifico). Come la copertina di un libro dicesse tutto.

E a me partono i problemi, le ansie, i brutti pensieri, le lacrime.

Perché se prima c’è una gola dolorante per il troppo urlare, dopo c’è solo un silenzio straziante che trafigge il cuore. Un silenzio pieno di lacrime che prendono e cadono, sopra ogni cosa.

E si vuole prendere e scappare da questa realtà.

In tutti i modi, veri o fantastici che siano.

Oggi. Pranzo.

Tra un portata e l’altra se ne salta fuori con qualcosa tipo “l’altra sera mi ha sentito piangere… anche le madri hanno momenti di sconforto… ma bisogna essere rispettosi dei sentimenti”.

Ovviamente con il suo solito tono da arrabbiata, da ho ragione solo io e tu sei (e mi fai) schifo.

E, la cosa, ovviamente mi ha fatto arrabbiare.

Da che pulpito viene la predica!

Pretende rispetto! Rispetto per cosa? Per le belle parole che mi ha detto? Per come si è comportata in questi ultimi mesi? Per come non rispetta me, i miei sentimenti, le mie scelte, il mio essere?

E, ovviamente, ho finito lì il mio pranzo. Dopo il primo.

Perchè a me, in quei momenti, mi si chiude lo stomaco e non riesco a fare altro che non assistere ai pensieri che cozzano, impazziti, dentro la mia testa.

Silenzi pericolosi

L’avevo sentita piangere, dall’alto, mentre io ero giù in camera.

Così, piano, evitando di fare rumore, senza ciabatte, son salito, per tentare di capire cosa fosse successo.

Ogni scalino che facevo, sentivo il suo pianto sempre più forte, disperato, giungere da dietro la porta chiusa della sua camera.

E il pianto, il singhiozzo, le parole che non riuscivo a comprendere, le parole di lui per tranquillizzarla, per calmarla, per capire cosa fosse successo.

Poi, poco a poco, il pianto si fa sempre più debole, finchè lassù, in corridoio, sento solo il tic tac delle lancette dell’orologio della cucina del piano inferiore.

Rimango comunque lì, immobile. Mi siedo, appoggiandomi allo stipite della porta. Dal basso, la luce di camera mia lasciata accesa delineava le forme della scala.

E a parte l’orologio, era tutto silenzioso. I piedi erano sempre più freddi, a contatto con il pavimento.

Finchè poi, la sua voce.

Non più tremante e singhiozzante dal pianto.

Ma ferma, come se in quegli attimi di apparente tranquillità, avesse preso una decisione.

Sì. Ha preso la stessa decisione che io ho già preso settimane fa.

Ha deciso che noi, per lei, non esistiamo più, proprio come io, settimane fa, avevo deciso che loro per me non sarebbero più esistiti, almeno finchè le cose non cambiavano.

E così, se mentre la sentivo piangere avevo schifo per quel qualcosa che mi paralizzava, mi bloccava dall’aprire la porta della camera e dal correre ad abbracciarla, ora, sentirla pronunciare queste parole, mi faceva arrabbiare. E molto.

Perchè le sue parole dimostravano ancora una volta di non aver capito le mie ragioni, il motivo della mia scelta. Come se mi divertissi a fare così, come se lo facessi per gioco.

Perchè volevo solo entrare, urlarle con tutto il fiato che avevo in corpo che era una stronza, che mi aveva rovinato la vita e ancora continuava a rovinarmela e che la odiavo, che non mi fregava più nulla che io per lei non più nessuno, visto che lei, per me, aveva cessato di essere qualcuno già da prima.

Ma non l’ho fatto. Sarebbe stata la rabbia a parlare. La rabbia di non sentirmi bene, di non sentirmi voluto e accettato, la rabbia di non poter essere me stesso tra queste quattro mura.

E così sono rimasto in corridoio.

Fermo, zitto, paralizzato.

Avvolto nel silenzio.

Il silenzio di una famiglia che lentamente, giorno dopo giorno, si sta distruggendo.

E in quell’immobilismo, solo un’azione, prima di tornare in camera.

Prendere la porta del corridoio e chiuderla, sbattendola, alle mie spalle.

Per far presente che c’ero anch’io, per sfogare un po’ la rabbia, prima di tornare in camera, chiudere il libro, scrivere queste righe per il mondo e cacciarmi sotto le coperte a piangere, piangere e piangere.

Anniversari

Oggi niente lezione. Causa un tremendo maldigola e un po’ di febbre.

Così, a casa tutto i giorno. In parte a dormire, in parte a studiare.

Pranzo e cena.

Poi, dopo cena, arriva mio padre in camera.

Con un vassoio di pasticcini in mano, chiedendomi se voglio uno dei “pasticcini dell’anniversario”.

Ovviamente, rifiuto, non mi vanno.

Ma non posso non fare a meno di non pensare a che anniversario si riferisse..

Telefonate e commenti

Sarà, ma a me parlare con la Bergamasca fa bene.

E fa piacere leggere e riflettere su quello che voi mi scrivete. E sento che, intorno a me, ho un sacco di persone che, chi più, chi meno, ci tiene a me.

Via la tristezza, via le crisi e un po’ più di risoluzione e fermezza guardando il mio futuro e la mia situazione.

E’ stupido lasciare sfuggire l’occasione che aspetto da almeno 4 anni.

E’ stupido fare di tutto per uscire di casa, a 23 anni, per cosa, poi? Non risolvere il problema con i miei e – forse – faticare a vivere e fare molti sacrifici.

Quindi, signori miei, quella è la mia casa ed è giusto che ci viva ancora, fin quando ne avrò bisogno.

Quella è la mia famiglia e devo darmi da fare perchè i rapporti si sistemino.

Quello è il mio futuro e ci devo almeno tentare.

E mal che vada, per una volta nella mia vita, non avrò rimorsi.