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Azione/reazione

Sei arrabbiata?

Non mi vuoi parlare e mi hai completamente ignorato a cena.

Bene, fai pure.

Non me ne frega assolutamente nulla.

Perché qui, se uno dovrebbe essere arrabbiato, sono io.

Dite che le cose sono cambiate, che voi siete cambiati e sono io che non ho fatto nulla. Ne siete sicuri?

Perché non avete fatto un – che sia uno! – passo in avanti. Verso di me, verso la mia situazione, verso chi è importante nella mia vita.

Volete continuare ad ignorarlo?

Bene, fate pure.

Ma così facendo, ignorate (e allontanate) me.

NRVS

Che poi, già uno è nervoso di suo.

Perché per quanto abbia finalmente finito l’esercitazione finale dell’esame di lunedì, deve ancora fare tutte le cose accessorie. Che so, stampare la ricerca (ed è già partita mezza risma…), impaginare “l’evoluzione del progetto”, inventarsi cosa scrivere nel “per quale motivo credi possa avere successo la tua idea”, sistemare le esercitazioni passate, riordinare il raccoglitore delle ricerche, iniziare a preparare il cd da consegnare con anche la copertina, armarsi di carta, cartoncino, matita e mani per creare il folder nero portaesercitazioni, oltre a pensare alla scatoletta delle carte.

Poi aggiungiamoci discussioni varie, che criticano il mio modo di fare, il fatto che “non guardo mai l’orologio”, ripetere ventimila volte le stesse cose e ripetere ventimila volte le stesse domande. E poi si passa di frase, in frase, sempre più insopportabile. E mi sento dare pure dello stupido, perché ho dato fiducia alle persone sbagliate, che mi sono fatto prendere in giro, tra ore di lavoro non pagate e soldi ricevuti di cui sto ancora aspettando la ricevuta di versamento dei contributi. Perché, sì, insomma, rivolgersi ad avvocati o alla Finanza forse è un po’ troppo. Però, non ne voglio parlare.

Non ditemi che ho sbagliato, perché non posso reggerlo.

Non questa settimana. Non con tutte le ore di sonno che non ho fatto ancora sulle spalle.

Non con tutta la fatica che ho fatto per riuscire a fare il meglio che potevo, in base alle mie capacità e al tempo che non avevo.

Non con tutto il casino di ieri. E avevo paura che potesse finire male, molto male e non l’avrei sopportato, in quell’ora angosciante di silenzio stampa.

E no, non esasperatemi, perché non è quello di cui ho bisogno.

Perché non ho voglia di mangiare male, ingoiando tutto senza masticare, perché voi mi fate innervosire.

Non voglia di arrabbiarmi e alzare la voce e voi la alzate.

Non ho voglia di prendere, sbattere a terra la sedia alzondomi e sbattere con una rabbia che non pensavo di avere le porte che incontravo.

Eppure è successo.

E non mi piace.

E non avevo bisogno.

E sono comunque indietro con tutto quello che devo fare.

E non riesco a pensarci, non riesco a concentrarmi, non mi va.

 

 

Io, forse, ho tanta voglia di buttarmi sotto il piumone.

E arrendermi.

Nostalgia

Ok. E’ questa è stata l’ultima del 2008. E non ho voglia di altre nel prossimo anno.

Sono stutfo, stufo, stufo.

Stufo delle vostre belle parole. Ve le ricordate? Quelle vostre belle parole dette quel giorno, in montagna, immersi nel verde, nel silenzio, sotto quel fienile mezzo diroccato, con uno spelindino sole che giocava a nascondino tra le nuvole?
Beh. Ora come ora le definirei delle belle false parole.

Ancora una volta sempre i soliti discorsi. E non ce la faccio più. Perché io l’ho detto. L’ho detto cos’è che non mi era andato bene. Ho detto quello che mi aveva fatto stare male, male, male, MALE.

Eppure ho l’impressione che non mi avete ascoltato. O ve ne siete fregati, perché il vostro orgoglio è più forte di ogni altra cosa.

E anche oggi. Detto, ridetto. E a distanza di 2 minuti, dite che non avete capito, cosa vi chiedo. Che non avete capito cosa mi ha bloccato, ancora di più.

Perché sembra che non lo abbiate capito. Nell’idea di proteggermi e proteggervi, mi sono chiuso in me stesso. Per anni e anni. E, insomma, aprirsi è veramente difficile. E anche questo, l’ho detto e ridetto e non lo avete ancora capito.

E’ successo il patatrac. Ci sono state le belle parole, le crisi, i pianti, le gite della bella famigliola contenta. Io ho tentato di fare dei passi, con tutta la difficoltà del caso. Tutta la difficoltà di affrontare la situazione. Voi dite di non averne visti. E continuate a chiedere passi, passi, passi e ancora passi.

Ma voi, ne fate?

Ho sopportato le vostre tremende parole nei miei confronti, nei confronti di chi amo, nei confronti di chi apprezzo e rispetto.

Ma non posso sopportare le parole del fattaccio. Quelle no, non le posso accettare.

Ed è da quelle parole che è derivata l’ennesima chiusura.

Però no, io mi fisso, guardo al passato e non voglio guardare avanti.

Ma come guardare al futuro e sperare in qualcosa di meglio con una famiglia che mi dice che non accetta quello che sono e non mi accetterà mai? Come faccio a guardare al futuro e sperare in qualcosa di meglio con una famiglia che non reagisce, una volta detto che queste parole mi hanno fatto stare male, male, malissimo e che mi sarei almeno aspettato qualche frase diu circostanza, del tipo non lo pensavamo veramente/ero arrabbiata/scusami, mi dispiace?

E vi ringrazio, per il bellissimo modo in cui mi state facendo passare le ultime ore di questo 2008.

E ora, vado a cancellare il post programmato per la mezzanotte. Che no, non sono più allegro felice contento e spensierato.

E se mi dovesse succedere qualcosa, non vi preoccupate. Lo scoprirete da qualche telegiornale, come tutte quelle povere famiglie con dei figli disgraziati, che se ne vanno in giro la sera, fumano, bevono, si drogano e si incidentano.

Silenzi pericolosi

L’avevo sentita piangere, dall’alto, mentre io ero giù in camera.

Così, piano, evitando di fare rumore, senza ciabatte, son salito, per tentare di capire cosa fosse successo.

Ogni scalino che facevo, sentivo il suo pianto sempre più forte, disperato, giungere da dietro la porta chiusa della sua camera.

E il pianto, il singhiozzo, le parole che non riuscivo a comprendere, le parole di lui per tranquillizzarla, per calmarla, per capire cosa fosse successo.

Poi, poco a poco, il pianto si fa sempre più debole, finchè lassù, in corridoio, sento solo il tic tac delle lancette dell’orologio della cucina del piano inferiore.

Rimango comunque lì, immobile. Mi siedo, appoggiandomi allo stipite della porta. Dal basso, la luce di camera mia lasciata accesa delineava le forme della scala.

E a parte l’orologio, era tutto silenzioso. I piedi erano sempre più freddi, a contatto con il pavimento.

Finchè poi, la sua voce.

Non più tremante e singhiozzante dal pianto.

Ma ferma, come se in quegli attimi di apparente tranquillità, avesse preso una decisione.

Sì. Ha preso la stessa decisione che io ho già preso settimane fa.

Ha deciso che noi, per lei, non esistiamo più, proprio come io, settimane fa, avevo deciso che loro per me non sarebbero più esistiti, almeno finchè le cose non cambiavano.

E così, se mentre la sentivo piangere avevo schifo per quel qualcosa che mi paralizzava, mi bloccava dall’aprire la porta della camera e dal correre ad abbracciarla, ora, sentirla pronunciare queste parole, mi faceva arrabbiare. E molto.

Perchè le sue parole dimostravano ancora una volta di non aver capito le mie ragioni, il motivo della mia scelta. Come se mi divertissi a fare così, come se lo facessi per gioco.

Perchè volevo solo entrare, urlarle con tutto il fiato che avevo in corpo che era una stronza, che mi aveva rovinato la vita e ancora continuava a rovinarmela e che la odiavo, che non mi fregava più nulla che io per lei non più nessuno, visto che lei, per me, aveva cessato di essere qualcuno già da prima.

Ma non l’ho fatto. Sarebbe stata la rabbia a parlare. La rabbia di non sentirmi bene, di non sentirmi voluto e accettato, la rabbia di non poter essere me stesso tra queste quattro mura.

E così sono rimasto in corridoio.

Fermo, zitto, paralizzato.

Avvolto nel silenzio.

Il silenzio di una famiglia che lentamente, giorno dopo giorno, si sta distruggendo.

E in quell’immobilismo, solo un’azione, prima di tornare in camera.

Prendere la porta del corridoio e chiuderla, sbattendola, alle mie spalle.

Per far presente che c’ero anch’io, per sfogare un po’ la rabbia, prima di tornare in camera, chiudere il libro, scrivere queste righe per il mondo e cacciarmi sotto le coperte a piangere, piangere e piangere.

Anniversari

Oggi niente lezione. Causa un tremendo maldigola e un po’ di febbre.

Così, a casa tutto i giorno. In parte a dormire, in parte a studiare.

Pranzo e cena.

Poi, dopo cena, arriva mio padre in camera.

Con un vassoio di pasticcini in mano, chiedendomi se voglio uno dei “pasticcini dell’anniversario”.

Ovviamente, rifiuto, non mi vanno.

Ma non posso non fare a meno di non pensare a che anniversario si riferisse..

Sonno, tanto sonno

Ho sonno, tanto sonno.

Eppure devo resistere. E stampare pagine su pagine su pagine.

Ovviamente, quando serve la tecnologia, questa da’ sempre problemi, oltre a farti perdere un sacco di tempo [no, beh, quello forse non è esattamente colpa della tecnologia, ma di qualcuno che dice che ti sistema lui tutto, ma poi non è in grado di farlo e quindi sei tu che perdi tempo, come se già non avessi altro da fare].

Insomma, alla fine oggi sveglia alle 8. E subito, di corsa, davanti al mac. A finire la ricerca, a fare le prime (secondo me tremende) bozze, a perdere tempo a tentare di sistemare una stampante a colori che non funziona.

Poi il pranzo, una mezza litigata/delusione per la questione Milano, poi di nuovo davanti al mac, una doccia veloce [completamente sotto pressione], il viaggio in macchina, l’ufficio fortunatamente tranquillo, la cena saltata, il ritorno a casa e di nuovo il mac, una stampante, dei fogli bianchi e le ultime cose da sistemare.

Ora, però mi sa che mi arrendo. Stampare certi ads in bianco e nero è semplicemente ridicolo, perdono il senso. Però, se li stampo, faccio almeno vedere che ho cercato qualcosa, ma non l’ho potuto potuto presentare in tutta la sua bellezza per delle carenze tecniche che dovranno essere risolte presto (laser a colori, laser a colori!).

Ecco, lo sapevo, sto straparlando. E gli occhi mi chiedono pietà.

Suvvia. E solo domenica sera. La settimana non è ancora iniziata. Però, a me, non sembra che quella precedente sia finita. Non un giorno di pausa, non momento o un attimo di riposo o di svago. Anzi.

Vedremo come va.

Però, io, ora, ho paura del sonno. Soprattutto dopo una recente disavventura. Perchè lo spavento, il cuore che batte, il pensiero di essere stato fortunato perchè alla fine non c’era nessuno in giro, perchè non mi ero fatto male, nè causato danni, l’idea di aver sfiorato qualcosa di più grave per un soffio. E, non so poi perchè, me lo sono tenuto dentro. Per la paura di far preoccupare qualcuno. Però è uno dei motivi per cui vorrei cambiare, trovare un’altra soluzione al pendolarismo estremo dei 6 giorni su 7.

Ed ecco. Pure la laser si è spenta. E’ andata in risparmio energetico.

Ha finito di stampare quello che doveva stampare.

Ora li sistemo nelle cartellette trasparenti, metto il raccoglitore nello zaino e mi fiondo sotto le coperte.

Domani, ops, oggi, alla fine è un altro giorno.

E ho pur sempre gli scomodissimi sedili de LeNord per dormire un’altra mezz’ora/quarantaminuti. No?

Inutili (discussioni)

Volevo vederle con calma a lavoro ed essere comodo anche a stamparle.

Ma alla fine, tra una storia e l’altra (stavo pur sempre lavorando) non l’ho fatto.

Così, arrivato a casa, sapevo che avrei dovuto affrontare non solo la scomodità di avere la stampante nell’altra stanza, ma anche di qualcuno che si sarebbe svegliato, accorto che avevo acceso il modem e avrebbe avuto da ridire.

CVD, ovviamente. Perchè è tardi, domani devo alzarmi presto, perchè ci potevo pensare prima.

E io sono arrabbiato, come al solito. E stufo, di queste discussioni inutili.

Sto maturando la convinzione che, io, non riuscirò ad andare avanti così.

E voglio andarmene, il prima possibile.

Peccato che frequentare design comporta un’aumento delle spese e una diminuzione dello stipendio, avendo chiesto il part-time.

E così, sono bloccato, per almeno 3 anni.

Perchè mi sono iscritto? In fondo, sapevo a cosa stavo andando incontro. In fondo, sapevo che non sarebbe stato facile. Sono il solito imbecille che non riesce a valutare nulla e sbaglia sempre. In ogni, più piccola decisione.